Ukmina Manoori. La guerriera che da bambina vestiva da maschio
In Afghanistan per una famiglia senza figli maschi vige l’usanza, tollerata anche dai talebani, di crescere la figlia femmina come fosse un bambino.
Una consuetudine diffusa e antica: sono così tanti i ‘finti’ bambini che hanno un nome, bacha posh “bambine vestite da maschio”. Perché succede? Perché avere soltanto figlie femmine per una famiglia è un disonore, una vergogna, per scongiurare la sfortuna di avere in futuro altre figlie femmine, ma anche per avere un paio di braccia per il lavoro.
Giunte alla pubertà però le bacha posh, dismettono gli abiti maschili e iniziano la vita “da invisibile” rinchiuse nelle mura domestiche indossano il burqa, passano dagli ordini del padre a quelli del marito; è il destino di tutte le donne afghane.
Non però per Ukmina Manoori. Nata al confine con il Pakistan, undicesima dopo 7 figlie femmine e 3 maschi morti in culla, il padre decise che sarebbe stata una bacha posh. Le cambiò il nome nel preveggente Hukomkhan che significa l’uomo che dà ordini. Cresce come un bambino: porta le pecore al pascolo, va in bicicletta, gioca a pallone, parla con gli uomini da pari.
Ukmina assapora la libertà riservata agli uomini e quando giunge alla pubertà non è disposta a rinunciarvi. Dice “è troppo tardi. Ho visto le ragazze della mia età scomparire dalle strade. Per me non è più possibile tornare indietro”.
A sedici anni si ribella, rifiuta il matrimonio, continua a indossare gli abiti maschili nascondendosi il seno e parte e raggiunge i mujaheddin sulle montagne per abbattere il nemico, l’invasore sovietico.
Siamo negli anni Ottanta. Ukmina combatterà per 6 anni, una coraggiosa guerrigliera che si guadagnerà il rispetto della comunità, rafforzato dal pellegrinaggio alla Mecca. Nel 2009 si aggiudica la maggioranza per un seggio nel Consiglio provinciale della sua città.
Oggi superata la mezza età, stimata dalle donne e dagli uomini è una attivista dei diritti femminili e la sua storia l’ha racconta nel libro Le bambine non esistono (ed. Libreria Pienogiorno) scritto a 4 mani con la giornalista francese Stéphanie Lebrun e tradotto da Maria Moresco.