Aung San Suu Kyi, il discorso che non convince

Aung San Suu Kyi 2Com’era stato annunciato il 19 settembre 2017, in coincidenza con l’apertura dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Aung San Suu Kyi, leader de facto del Myanmar (premio Nobel per la Pace), ha fatto un discorso pubblico, affrontando la questione delle discriminazioni e, conseguente esodo della minoranza musulmana dei Rohingya. È la prima volta che il premio Nobel per la pace, si pronuncia dopo la crisi del 25 agosto 2017 che ha costretto oltre 400mila, cifra che aumenta ogni giorni, a fuggire in Bangladesh.

Il leader birmano ha aperto ai rappresentanti internazionali affermando di non “temere lo scrutinio internazionale” e di voler rispettare i principi costitutivi dell’Assemblea delle Nazioni. Ha annunciato un’indagine interna per “conoscere i motivi di quanti sono fuggiti e di chi, invece, è rimasto: gran parte della popolazione musulmana dell’Arakan”.  Ha espresso “dolore e preoccupazione” per il “gran numero di musulmani che fuggono verso il Bangladesh”.  Il Myanmar, secondo le parole del leader birmano, non intende prendersela con “altri o negare responsabilità” e sulla base delle “leggi vigenti” intende punire ogni eventuale abuso che “potrebbe aver esacerbato la crisi”.

Il punto debole del discorso

Suu Kyi si è dichiarata pronta ad accogliere quanti hanno diritto di cittadinanza, ma secondo i parametri “stabiliti nel 1993” dal regime militare, lo stesso che ha rinnegato i Rohingya nel 1962 e dichiarati apolidi nel 1982. Non a caso Suu Yi, come riferiscono le agenzie internazionali, nel corso del suo discorso, durato 37 minuti, non ha mai pronunciato il nome della minoranza etnica, Rohingya, perché non esiste nel vocabolario birmano. Ha usato soltanto il termine “musulmani”.

manifestazione contro i rohingyaHa ragione Suu kuy nel ricordare che la democrazia del Myanmar “è giovane e fragile dopo mezzo secolo di regime autoritario”, ricordando i numerosi conflitti all’interno del Paese e a chiedere comprensione e sostegno alla comunità internazionale e ai suoi concittadini per i suoi tentativi di “riportare pace, stabilità e promuovere lo sviluppo” durante questo periodo di transizione democratico iniziato “meno di 18 mesi fa” con le elezioni del 2015. Va ricordato, inoltre, che per alcuni osservatori Suu Kyi, dopo aver trascorso circa 20 agli arresti domiciliari  invisa al regime, è oggi  “è al potere senza il potere”, perché i militari sono ancora al Governo.  Ma il Myanmar nella sua costituzione ha riconosciuto ben 135 etnie come propri cittadini, ma non i Rohingya, perché musulmani, mentre l’ex Birmania è a maggioranza buddista.  Se saranno applicate le regole del 1993, viene da chiedersi, chi avrà diritto alla cittadinanza fra i Rohingya?

Le reazioni del mondo e della comunità internazionale

Dopo il discorso del leader birmano, l’Agenzia dei migranti dell’Onu a chiesto di avere accesso illimitato nel Myanmar per verificare “i fatti e le circostanze” degli abusi e violazioni dei diritti umani, in particolare negli Stati di Rakhine e Arkan, dove risiedono la maggior parte dei Rohingya.

Dalai LamaIl Dalai Lama, capo spirituale dei tibetani, intervenuto pochi giorni fa nel caso dei Rohingya, rispondendo a un giornalista non ha esitato a dichiarare che “Buddha li avrebbe sicuramente aiutati. Quella gente, che in qualche modo sta attaccando alcuni musulmani” ha proseguito il Dalai Lama “dovrebbe ricordare che Buddha, in simili circostanze, avrebbe certamente aiutato quei poveri musulmani. Io la vedo così” ha concluso il capo spirituale “e per questo provo tanta, tanta tristezza”.

Ma le parole del Dalai Lama non hanno importanza per i birmani: benché la religione sia la stessa, i birmani hanno tradizioni diverse rispetto ai tibetani e non riconoscono il Dalai Lama come leader spirituale.

Nel frattempo su Cange.Org è apparsa la petizione per revocare il Nobel ad Aung San Suu Yi: ha già superato le 400mila firme.

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