Rugby. La mistica materiale della palla ovale

rugby nelle scuoleLa più bella vittoria l’avremo ottenuta quando le mamme italiane spingeranno i loro figli a giocare al rugby se vorranno che crescano bene, abbiano dei valori, conoscano il rispetto, la disciplina e la capacità di soffrire. Questo è uno sport che allena alla vita (John Kirwan ex allenatore Naz. Italia)

Il rugby viene considerato una pratica sportiva altamente etica in cui i valori di squadra sono connaturati all’essenza stessa del gioco. Tuttavia si corre il rischio di cadere nella mistica del “pallone ovale” come la definisce Alessandro Cini, giornalista, scrittore, giocatore e amante del rugby. Professionisti o meno, si tratta di uno sport ben strutturato e formativo che potrebbe rappresentare un’educazione motoria e corporea nelle scuole, e una forma di prevenzione contro una non positiva gestione lavorativa da adulti.

Uno dei suoi principi fondamentali riassume il fulcro del gioco: “Non è importante chi segna la meta, bensì quanta gente partecipa attivamente affinché questa venga segnata”.  Un ottimo modo per fare crescere in modo sano i propri figli. Ne abbiamo parlato a lungo con Alessandro, ecco il suo racconto, obbiettivo e appassionato al tempo stesso.  Basta la volontà.

L’associazione Trasgressione.net qualche anno fa ideò un progetto educativo sul rugby nelle carceri, affermando questo concetto “L’eroina ti sfianca, ti isola, ti degrada/Il Rugby ti sfianca, ti accoglie, ti consolida” come commenteresti questa contrapposizione-definizione?

La palla ovale che giunge all’interno delle carceri (attenzione parliamo solo di alcuni istituti di pena, e di alcuni detenuti ritenuti idonei a portare avanti questi vari progetti sportivi) non sono certo una novità. Nel Lazio – giusto per citare un esempio – c’è la realtà dei Bisonti, la squadra dei detenuti della casa circondariale di Frosinone presente nel Campionato federale di Serie C. Ma ci sono, o ci sono stati nel tempo, progetti un po’ in tutta Italia: Pisa, Livorno, Monza, Torino.

Tornando al concetto sopra citato posso dire che è vero al 100%: il rugby è uno sport assolutamente inclusivo. Molti lo definiscono l’essenza dello sport di squadra, proprio perché esalta in maniera chiara il ruolo e la responsabilità del gruppo rispetto alla performance del singolo. Il fatto che la squadra sia “divisa” tra “avanti” e i “tre-quarti” è solo per definire meglio i ruoli in campo.

In partita tutti quanti, dal pilone sinistro (maglia numero 1) all’estremo (maglia numero 15), devono fornire il proprio apporto alla squadra: ognuno deve essere in grado di dare “sostegno” al portatore di palla. Non è importante chi segna la meta, bensì quanta gente partecipa attivamente affinché questa venga segnata.

Quali sono le caratteristiche del rugby che lo rendono particolarmente “etico” rispetto ad altri giochi di squadra, uno per tutti, il calcio così diffuso nel nostro paese?

Prima di tutto direi che non bisogna cedere alla tentazione di perdersi nel pensiero globalizzato, accettando in maniera acritica quella che a me piace definire la “mistica della palla ovale”. In teoria ogni sport è portatore di valori sani: è la prassi che difetta! Meglio non enfatizzare troppo.

Sicuramente il movimento rugbistico nazionale e internazionale si regge su valori che vengono condivisi dal più giovane dei giocatori dell’U6, così come dal professionista che gioca nel più importante campionato internazionale. Non c’è alcuna differenza. Il bambino che gioca ad “acchiapparella con il pallone ovale” entra in campo con gli stessi chiari principi con cui vi scendono Martin Castrogiovanni o Sergio Parisse (tra i pochi rugbisti ad avere raggiunto le 100 presenze nella Nazionale Italiana ndr).

Si entra in campo per aiutare la squadra; si lotta fino alla fine senza mollare mai; se si perde, si apprende dalla sconfitta; se si vince, vuol dire che si è messo in pratica quanto ripetuto in allenamento.

L’avversario è tale fino a quando è in campo: dopo la fine dell’incontro è un amico con cui si è condivisa un’esperienza sportiva; non c’è spazio per l’esaltazione del singolo, perché a vincere è la squadra; c’è un “man of the match” che indica il giocatore che è stato più leale e ha mostrato più coraggio di altri; il capitano, e solo lui, può conferire con l’arbitro; una sanzione comminata dall’arbitro si accetta in silenzio. Potrei continuare per un’ora, ma credo che i lettori abbiano capito quel che intendo dire.

Come nasce il rugby? Perché nei paesi latini (rispetto ai paesi anglossassoni) non ha avuto e non ha lo stesso appeal?

La storia di William Webb Ellis, il pastore anglicano che nel 1823 nella città di Rugby (Inghilterra), creò lo sport della palla ovale, ormai si mescola con la leggenda. Qualcuno ha scritto che il rugby altro non è che una partita di calcio impazzita, e non gli si può dare torto. In effetti Webb Ellis proprio durante un match di calcio (sport parente strettissimo del rugby!) non fece altro che prendere il pallone con le mani e correre nel campo avversario evitando di essere placcato.

Il minore o maggiore appeal del rugby nei paesi latini è, tuttavia, una comoda bufala da salotto: l’Argentina e i suoi Pumas, la celebre nazionale bianco-celeste, incarnano esattamente quel che voglio dire. Ernesto “Che” Guevara, giocava a rugby per combattere la sua asma, e con lui tanti altri giovani argentini hanno calcato i campi di rugby perché è parte integrante della cultura sportiva di quel Paese.

Diciamo le cose come stanno: in Italia – dalla riforma Casati in poi – il rapporto tra scuola e attività sportiva è stato sempre complesso e conflittuale. In ambito scolastico, dopo il ventennio fascista, siamo arrivati addirittura a disconoscere il valore educativo dello sport, relegando ogni forma di espressione corporale al mero esercizio fisico-strumentale-salutista. Ora la situazione è ovviamente diversa, ma l’educazione sportiva rimane penalizzata nel nostro sistema formativo.

In Paesi come l’Australia il percorso sportivo di un ragazzo, soprattutto quando è promettente, viene facilitato; in Italia il Ministero dell’Istruzione ha dovuto ricorrere a una circolare per istituzionalizzare le assenze “sportive” di un atleta a scuola. Assurdo.

Che ruolo svolge il contatto nel rugby? Cambia nel tempo, a seconda dell’età del giocatore?

Nella teoria dei giochi sportivi, a seconda della definizione nella quale ci imbattiamo, è facile che si indichi il rugby come uno sport di squadra, di situazione, di combattimento o di contatto. Potremmo definire questa caratteristica peculiare del contatto la prima, vera forma di “filtro” tra i bambini che approcciano a questa attività.

Al di là delle abilità motorie di base, della strutturazione dello schema corporeo o dello schema motorio, ad alcuni bambini il contatto fisico piace, mentre altri non lo sopportano. È un po’ come l’acqua negli occhi nel nuoto! È un dato incontrovertibile. Crescendo il contatto diviene sempre più forte e va gestito, sia quando il ragazzo placca, sia quando viene placcato.

In determinati ruoli poi (penso agli uomini della prima linea, piloni e tallonatore) il contatto è “costante” per tutto il match: quando si va in mischia chiusa, testa contro testa, spalla contro spalla, si deve avere un “qualcosa in più”. Non è da tutti saper gestire questo genere di contatto.

Per chi non è pratico di questo sport, potresti riassumere in breve lo schema?

Si corre in avanti e si passa indietro, questo è quello che si dice ai bambini appena arrivati al campo. Per fare punto la palla deve essere schiacciata oltre le linea di meta. Una meta vale 5 punti; la sua trasformazione con il calcio 2; le punizione trasformate valgono 3 punti. Si placca solo il portatore di palla (al contrario di quanto avviene nel Football Americano) e lo si placca solo quando ha tutti e due i piedi in terra. Quando la palla esce lateralmente, la squadra che ne ha diritto batte una “Touche”. La mischia è una rimessa in gioco sul campo. Il resto si apprende un po’ per volta perché le regole sono tantissime e a volte gli stessi giocatori non le conoscono.

Secondo te, potrebbe essere introdotto nelle scuole? Sarebbe fattibile in termini di risorse economiche ed umane?

I progetti scolastici con il Touch Rugby (il rugby in cui non si placca ma si tocca l’avversario!) esistono già in tutta Italia. A Roma, così come a Genova e Parma molte scuole, grazie all’impegno della Fir e di alcuni ottimi educatori, praticano il rugby. L’obiettivo non è quello di creare campioni, ovviamente, ma di far conoscere meglio questo sport.

Per quel che mi riguarda lo introdurrei sin dalle scuole materne – magari con la forma “Flag Rugby” (invece di placcare si strappa una banda laterale attaccata con il velcro a una cintura) sia per le ragazze che per i ragazzi. Nihil difficile volenti, dicevamo i padri latini: tuttavia ci vuole la volontà di farlo.

Neofiti del campo, potrebbero pensare che si tratta di un gioco violento, in cui lo scontro fisico potrebbe causare dei danni. Per esempio, i colpi alla testa. Che risponderesti a queste obiezioni? Ci sono state ricerche scientifiche che affermano che il football americano possa favorire commozioni celebrali anche dopo anni. 

Molti genitori sono giustamente preoccupati per l’incolumità dei propri figli. Malgrado questo, basta guardare come giocano a rugby i più piccoli per rendersi conto che esiste una gradualità dovuta alla naturale crescita dei ragazzi: non c’è nulla di abnorme o spropositato. Come dicevo in precedenza, è ovvio che il “contatto” cresca, con il crescere dell’età e della categoria.

La concussion (quella che noi comuni mortali definiamo “commozione cerebrale”) è tuttavia un problema serio che è stato affrontato a livello internazionale dall’International Rugby Board. Può capitare nella carriera di un giocatore di qualsiasi categoria di prendere un colpo in testa, ed è proprio per questo che a livello medico-precauzionale l’atleta (di ogni categoria!!!) viene fermato, andando incontro a un protocollo di controllo che dura settimane, o addirittura mesi! Ringraziando il cielo il rugby non è il football americano, quindi il rischio di colpi, anche ripetuti alla testa, è di gran lunga inferiore.

Come scrittore per bambini, giornalista e giornalista sportivo sei in possesso di una visione privilegiata del comportamento umano, quale ruolo psico-fisico può svolgere nella crescita dell’individuo?

Prima di laurearmi all’Isef di Roma (Istituto superiore di educazione fisica) sono stato un discreto velocista, e la mia passione per il rugby giocato nacque seguendo le gesta di atleti come Marcello Fiasconaro, che oltre ad eccellere nel mezzo fondo, era anche un ottimo e conteso giocatore di palla ovale a livello nazionale.

Personalmente dico sempre che non siamo noi a scegliere uno sport, ma è lui a scegliere noi. Il rugby è una di quelle attività, che con il tempo, richiedono dedizione, amore, passione, sacrificio vero. Quello che dico è che tutti dovrebbero provare – almeno una volta nella vita – a giocare un partita di rugby per capire cosa significhi.

Portare a termine un incontro significa lottare per la squadra, per i propri compagni, accettare la sfida anche quando è più dura del previsto, accettare il verdetto del campo, e nel caso di una sanzione arbitrale, accettarla anche quando ci è avversa. Questa casa mia, una volta, si chiamava, Educazione Civica.

Rugby, anche uno sport per donne come pratica educativa e sportiva a livello agonistico?

Il rubgy è uno sport per tutti, e quando dico per tutti, intendo per ogni genere di persona. In una squadra troverai sempre i ragazzi più agili e veloci, quelli più forti e potenti, quelli mingherlini e capaci di imprese incredibili. Per questo motivo il rugby può avere posto tra gli sport riservati alle donne. Per altro le nostre Azzurre che hanno disputato il Sei Nazioni femminile quest’anno hanno raggiunto grandi risultati: perché le ragazze, si sa, sono molto più determinate di noi maschietti.

Si parla di un modello organizzativo, applicabile al mondo del lavoro, concordi con questa affermazione?

I “team building” aziendali (ne avrò visti almeno un decina qui a Roma), guarda caso si fanno sempre con il rugby. Un motivo ci sarà pure! Quel che aggiungerei, tuttavia, è che se i nostri manager aziendali avessero conosciuto il rugby a scuola, oggi eviterebbero di far spendere migliaia di euro alle proprie ditte!

Quale è lo stato attuale del rugby in Italia? Vuoi segnalarci delle buone pratiche?

La situazione è molto fluida. L’Italia, lo ricordo a beneficio di quanti non siano appassionati, è entrata nella “corte del Six Nations (lo storico torneo che pone – una dinanzi all’altra – le Nazionali di Francia, Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda e Italia) nel 2000. In questi 16 anni il movimento è decisamente cresciuto in termini di visibilità mediatica, anche se la qualità del nostro gioco non è cresciuta come qualcuno forse si aspettava.

La base dei tesserati è decisamente aumentata, ma in realtà nessuno ha ricette o bacchette magiche per creare gli “Azzurri” del futuro: ci vuole tanto lavoro, tanta dedizione, tanta pazienza e molti ragazzi e ragazze sui campi di rugby, soprattutto ora che il Rugby Seven (il rugby a sette) è divenuta una disciplina olimpica. Per quel che mi riguarda ogni vivaio italiano, dove ci sono i piccoli del minirugby, è una “piccola fabbrica di meraviglie”: non smetterei mai di guardarli giocare.

Infine, la tua squadra del cuore, ce la puoi dire? Squadra del cuore e della mente?
Nel rugby l’appartenenza a un Club non si nasconde: ce l’hai cucita addosso! Sono felicemente legato da anni all’Unione Rugby Capitolina, il club romano dove gioca mio figlio più piccolo. All’Unione ho ricoperto il ruolo di dirigente accompagnatore e presso questa società ho portato avanti diverse attività legate al mio lavoro.

Essere un “Urchino” è impegnativo: i colori, bianco, blu e amaranto, infatti, rappresentano lo spirito del rugbista a 360°. L’Urc, come tante altre società romane e laziali, è una piccola/grande comunità in cui cerchiamo di essere solidali e vicini, gli uni agli altri; ma soprattutto il luogo che tutti noi abbiamo scelto per far crescere umanamente i nostri ragazzi.

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