I Rohingya saranno rimpatriati nello Stato accusato di pulizia etnica
Il Myanmar (ex Birmania) ha annunciato il rimpatrio degli oltre 620mila rifugiati Rohingya, che dall’agosto 2017 scappano dalle violenze della natia Birmania. Il ministro degli Esteri del Bangladesh, A. H. Mahmud Ali, nel corso della conferenza stampa svoltasi a Dacca ha dichiarato che i rimpatriati nell’ex Birmania, saranno dapprima sistemati in alloggi temporanei, per poi tornare alle loro ex residenze o “dove sceglieranno di andare”.
La conferenza stampa fa seguito al memorandum d’intenti siglato dai governi del Bangladesh e del Myanmar il 23 novembre 2017 che ha aperto la strada per il rimpatrio dei profughi della comunità musulmana. Il documento firmato da Mahmud Ali, ministro degli Esteri del Bangladesh e Kyaw Tint Swe, consigliere della leader birmana Aung San Suu Kyi è stato rubricato come Accordo sul ritorno delle persone trasferite dallo Stato di Rakhine.
Secondo il comunicato ufficiale del Governo del Myanmar il memorandum contiene le linee guida sulle politiche concordate per il rimpatrio. Sempre il comunicato rileva come la ‘crisi Rohingya’ è una vicenda tra Stati confinanti: il Bangladesh e il Myanmar per l’appunto, in grado di risolverla bilateralmente e in modo amichevole. Nessuno dei Governi ha detto quando inizierà il rimpatrio.
Rimpatriati e apolidi. Ancora una volta.
Nel memorandum d’intenti il Myanmar si è mostrato disposto a ricevere i rifugiati Rohingya appena avrà compiuto la loro identificazione e accertato il luogo della loro provenienza, e disponibile a condividere tali informazioni con il Bangladesh. Ma come riferisce l’agenzia di stampa EFE lo stesso Myanmar vorrebbe che i nuovi accordi bilaterali partissero dai precedenti siglati nel 1992, nei quali l’ex Birmania s’impegnava a ricollocare nello Stato di Rakhine i profughi musulmani che fuggivano, già allora, dalla violenza etnica, ma non a concedergli la nazionalità. Essere apolidi è una delle cause fondamentali della sofferenza dei Rohingya, che pur essendo nativi del Myanmar, quest’ultimo li considera immigrati del Bangladesh, imponendogli numerose restrizioni.
Amnesty International nel nuovo rapporto sulla crisi in corso nello Stato di Rakhine, accusa l’ex Birmania di costringere la minoranza musulmana Rohingya a vivere “intrappolata in un crudele sistema di discriminazione istituzionalizzata e promossa dalla Stato che equivale ad apartheid”. Il rapporto, dall’esplicito titolo In gabbia senza un tetto, frutto di 2 anni d’indagini, denuncia le autorità del Myanmar di “limitare gravemente ogni aspetto della vita dei Rohingya, confinandoli in un’esistenza ghettizzata dove è arduo accedere alle cure mediche e all’istruzione e obbligandoli persino a lasciare i loro villaggi”.
Questione irrisolta. Di generazione in generazione. Papa Francesco potrà fare qualcosa?
Il memorandum bilaterale tra il Myanmar e il Bangladesh renderebbe la situazione della comunità musulmana, quindi, irrisolta. Mentre i rimpatriati porterebbero i Rohingya a rivivere le sofferenze che patiscono, a ondate, di generazione in generazione.
Scrive l’agenzia di stampa EFE che la leader de facto dell’ex Birmania, Aung San Suu Kiy “ha promesso che il ritorno dei rifugiati sarà volontario e sicuro”. Ma viene da chiedersi come può essere volontario e sicuro il rimpatrio in uno Stato accusato – solo pochi giorni – dal segretario di Stato Usa, Rex Tillerson, di essere responsabile della “pulizia etnica” nei confronti della minoranza Rohingya. Un’accusa, quella di Rex Tillerson fatta in precedenza da Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani e confermata da Anna Neistat di Amnesty International.
Papa Francesco si recherà nel Myanmar il 27 novembre 2017. Autore di un accorato appello a sostegno della comunità musulmana già dall’agosto scorso, allo stato dei fatti, potrà intervenire a favore dei Rohingya?
Foto: 6 novembre 2017 – Rohingya attraversano il confine. Photo by Olivia Headon/Onu