L’eccellenza italiana fa risplendere la Natività
L’eccellenza italiana riporta alla luce la bellezza della Basilica della Natività. Nel 2013 sono iniziati i lavori di restauro della Basilica della Natività di Betlemme, inserita dall’Unesco nell’elenco del patrimonio mondiale dell’umanità dal giugno del 2012.
La Basilica della Natività di Betlemme è costituita da due chiese e da una cripta, ovvero la grotta della Natività, il luogo preciso, secondo la tradizione, dove è nato Gesù. Rappresenta uno dei luoghi più importanti per il mondo della cristianità e insieme alla Basilica dell’Annunciazione di Nazareth e alla Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme è meta dei pellegrinaggi dei credenti e non provenienti da tutto il mondo.
Fu eretta intorno al IV secolo per volontà dell’imperatore Costantino e della mamma Elena. Semi distrutta durante il V secolo, nel VI l’imperatore Giustiniano I ne ordinò la restaurazione e l’ampliamento. Un’ulteriore restaurazione effettuata risale al 1474, anch’essa compiuta da “mano” italiana, nello specifico veneziana. Da allora fu sottoposta solo a interventi di contenimento da parte degli Ottomani. La Basilica è riuscita a salvarsi, nel corso dei secoli, dalle numerose invasioni come quella persiana e araba e dai travagli del conflitto israelo-palestinese che la vide protagonista nel 2002, quando dal 2 aprile al 10 maggio, nel corso della seconda Intifada, fu occupata da militanti palestinesi per sfuggire alla cattura delle Forse di Difesa Israeliane. La Chiesa riportò danni causati dai proietti dei conflitti a fuoco delle due parti antagoniste e dal incendio che divampò nelle sue vicinanze.
Il progetto di restauro della Natività e il suo inizio
La Natalità è gestita delle tre religioni cristiane, greco-ortodossa, armeno-ortodossa e latina, mentre Betlemme è sotto la sovranità dell’Autorità Nazionale Palestinese che ha indetto il bando per il restauro. A giudicarsi la gara per i lavori di restauro, tra le 12 aziende partecipanti, è stata l’italiana Piacenti di Prato, specializzata sia nella progettazione ed esecuzione di restauri sia nella conservazione di di beni e monumenti storici e artistici.
I lavori di restauro, iniziati nel settembre del 2013, hanno riguardato il tetto della basilica, la cui copertura in piombo risalente al XV secolo, era seriamente danneggiata, oramai incapace di trattenere l’acqua piovana, tanto da provocare allagamenti all’interno della basilica, mettendo a rischio l’antica pavimentazione, con infiltrazioni nell’’intero edificio; il restauro delle vetrate, il ripristino della copertura e del sistema delle capriate lignee, il restauro conservativo degli apparati musivi e ad intonaco, delle colonne dipinte e degli architravi in legno. Questo il progetto; ma l’appassionato lavoro degli esperti italiani è andato oltre e, come vedremo, ci ha riservato, delle “sorprese” artistiche di notevole rilievo.
La Piacenti ha lavorato in concerto con altre imprese e centri – studi italiani specializzate nel settore dei restauri artistici, 169 in tutto, fra cui l’Università di Napoli, impegnata fin dalla genesi del progetto, avendo condotto gli studi preliminari e le verifiche strutturali.
Un lavoro imponente quindi, come confermano gli altri numeri accumulati in 3 anni di lavoro, riportati, come tutta la “cronaca” del lavoro sul sito della Piacenti, che vedono un volume di 27 spedizioni di materiale, mq di ponteggi, 20 tonnellate di legno antico, 200kg di resina per legno, 55.000 viti solo per il tetto; 2000 mq di multistrato fenolico, 2.800 mq di lastre di Piombo, 2 tonnellate di lana di Prato.
Cultura, conoscenza, esperienza, tecnica e creatività
L’attuale ristrutturazione della Chiesa è la prima negli ultimi 600 anni. L’obiettivo del restauro che si è prefissato la Piacentini e cercare di ripristinare, per quanto possibile, la bellezza originaria della basilica, oltrepassando, se necessario, il restauro del XV secolo e retrocedere a 1.500 anni fa. Perché come hanno spiegano i tecnici toscani dopo aver esaminato il tetto “in ogni suo centimetro le scelte di allora (epoca giustinianea ndr) fatte su travi, incroci e geometrie, restano le migliori in assoluto”.
Ma trovare gli stessi materiali di allora è pressoché impossibile. Il legno di cedro del Libano, usato da Giustiniano per le travi, in Medio Oriente non esiste più. E allora i nostri hanno fatto ricorso al legno usato dai Veneziani nel XV secolo, che si trova nel Nord- Est d’Italia, da dove è stato “d’importato” via mare. Arrivato a Betlemme i restauratori italiani lo hanno sottoposto ad un processo “d’invecchiamento”, in modo da renderlo simili alle altre travi esistenti, e sono riusciti ad incastrarlo negli stessi incavi fatti dagli tecnici di Giustiniano, nuovamente celebrati dalla Piacenti che ha raccontato :” Abbiamo usato i computer più avanzati per eseguire i conteggi numerici più complessi, ma l’esito ha sempre dato ragione a Giustiniano: ogni incavo venne fatto nel Cinquecento nel punto migliore”.
Ma perché la lana di Prato? E i chiodi giustiniani?
Come abbiamo già scritto, il vero problema della basilica e motivo del restauro, era rappresentato dall’ infiltrazione d’acqua. L’aria secca di Betlemme rende il legno un materiale resistente all’usura del tempo, a patto che sia protetto dall’acqua, un problematica non risolta, semmai aggravata, dalle tecniche usate nel passato. I Veneziani prima e gli Ottomani poi, per proteggere le travi di legno, misero degli strati di piombo con sotto l’argilla, un materiale che ha incrementato l’infiltrazione d’acqua creando l’ambiente ideale alle termiti del legno. Come risolvere il problema? Con un arguto stratagemma al quale sono ricorsi i nostri restauratori: le 2 tonnellate di lana italiana, di cui sopra, fissate “attraverso piccoli legni in modo da creare un sistema di aerazione, in grado di far seccare qualsiasi goccia d’acqua, ove penetrasse”.
E ancora, nella piena fedeltà della struttura originaria, i restauratori hanno deciso di riadoperare i chiodi originali. Gli ingegneri del VI secolo usarono chiodi di tre differenti lunghezze, tanti, naturalmente, equivalenti a nove tonnellate, come spiegano i tecnici per dare la dimensione del lavoro, che sono stati estratti uno a uno, restaurati e riadoperati per fissare le nuove travi. Un lavoro certosino di grande qualità.
Poi il matrimonio perfetto tra la bellezza dell’antico e la tecnologia del presente, per la sostituzione delle vetrate ormai opache, con vetro ultravioletto in grado di filtrare i raggi del sole
Le ri-scoperte
L’accuratezza del restauro, ma anche la grande preparazione e cultura dei restauratori hanno permesso di riportare alla luce dalle grandi opere artistiche a bellezze minori, ma di certo non meno importanti. Ri-scoperte non casuali, ma ostinatamente cercate, seguendo le fonti storiche. E infatti man mano che procedeva il lavoro si è svelata la “sontuosità del cammino verso la Grotta” come racconta all’Ansa Marcello Piacenti, riferendosi ai colori dei mosaici delle pareti dove spicca l’oro abbinato alle varie gradazioni di turchese, di verde e di rosso, colori che riprendono la loro intensità e lucentezza. “2.000 metri quadrati di mosaici, al tempo illuminati da 32 finestre” continua a raccontarci Piacenti “ dove si calcola che 28 milioni e mezzo di tessere siano andate perse per l’incuria”.
Tra i capolavori che riaffiorano si va dal dettaglio dell’asino che porta Gesù a Gerusalemme che sembra sorridere “quasi si rendesse conto dell’importanza della persona che sta accompagnando” al grande svelamento del Settimo Angelo, “ scomparso da secoli alla vista, riemerso grazie alla termografia con la sua tunica di tessere bianche e celesti e l’aureola dorata”. Un angelo con “ferite importi di assedi e pallottole” che raccontano tutta la storia di quella terra turbolenta e complessa che è la Palestina.
E ancora riscoperte che ci riportano, quando tutto iniziò, ossia all’epoca di Costantino “Si tratta di materiali lignei da reimpiego, decorati, trovati all’interno degli architravi di Giustiniano e ad essi precedenti” spiegano gli esperti, sicuri che per gli archeologi sarà possibile datarli con certezza attraverso l’esame del Carbonio 14.
La III Fase. Adotta una colonna e parte il fundraising
Nei prossimi mesi , si attendono altre grandi sorpresa, con il restauro dei 30 capitelli che permetteranno di portare alla luce le decorazioni crociate delle colonne del XII secolo, e saranno restaurati e resi visibili anche i mosaici di Elena, che al momento giacciono sotto la navata, che corrispondono a circa “100 metri quadrati di tessere del IV secolo – conclude Piacenti – per le quali stiamo studiando un camminamento di passerelle sospese come quello di Aquileia”.
Quest’ultima parte del lavoro, per la quale è previsto un impegno di tempo di altri 2 anni e mezzo, darà il via alla III Fase del progetto per la quale il Ministro palestinese Ziad Albandak, capo del Consiglio presidenziale per il restauro della Basilica, ha lanciato la campagna internazionale di fundraising “Adotta una colonna” (www.nativityrestoration.ps), che si pone l’obiettivo di raccogliere i 2 milioni e 300 mila euro.
I costi della restaurazione, ad oggi sostenuti , sono provenuti per il 50% da risorse palestinesi e il rimanente da alcuni stati, tra cui il Vaticano, l’Ungheria, la Francia, la Russia e la Grecia.
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