Fronte del Porto. Da New York a Napoli

Fino al 25 novembre è in scena al Bellini, storico teatro sito nel cuore di Napoli, Fronte del porto, opera  cinematografica finemente drammatizzata. Un perfetto sine qua non! Una contaminazione ben armonizzata che lascia lo spettatore con il fiato sospeso per circa due ore.  La riscrittura è per mano di Enrico Ianello che crea un mix suggestivo fra il testo originale di Budd Schulberg, ispirato da un’inchiesta giornalistica  e  dall’omonimo film di Elia Kazan, vincitore di otto Oscar nel 1955.

La regia è affidata  all’ ingegno di Alessandro Gassman che, sagace mentore, conduce i suoi attori come se fosse dietro ad una macchina da presa, impegnato a girare  un film poliziesco tra sindacati, malavitosi e poveri cristi sul “fronte del porto napoletanto” . Anche stavolta coordina al meglio una compagnia di 10 interpreti bravissimi. Tutti entusiasmanti, indifferentemente. Come Per qualcuno volo su nido del cuculo, traspone la scena nella città partenopea, creando una meravigliosa sinergia fra luoghi ameni e architetture fatiscenti che ospitano interessi della malavita organizzata.

Sicché il porto diventa un fronte di battaglia fra odi e dissapori. Un crocevia di vendette e prove di forza dove l’unica voce dissidente è quella di un  parroco agguerrito, che vuole salvare il suo gregge di operai sfruttati e maltrattati. L’incuria, l’abbandono, la totale assenza dello stato, una vecchia storia dal vago sapore di cronaca dei nostri giorni.

Le scenografie scorrono con naturalezza, come l’acqua livrea del mare, che accompagna l’intera vicenda; i pannelli mossi dagli attori aprono a quei vicoli stretti dove si fa strada il brusio angusto di un popolo ferito, tuttavia sempre e comunque pronto a riferire. Sullo sfondo via via  sfuma il fascino di luoghi tanto insidiosi quanto meravigliosi, teatro di fatti e misfatti. La Napoli sco-scesa sul suo nobile, discutibile passato.

Audace l’ utilizzo del dialetto, perfino eccessivo in alcuni tratti: le parole urlate a gran voce,  le frasi contratte, talvolta incomprensibili, lanciate come fiamme ardenti bruciano l’anima; i visi contratti dalla rabbia assordante lasciano la platea sgomenta.  Eppure, dagli spalti sembra echeggiare un triste richiamo a ricordare  che il male  non ha patria, non ha un suo idioma,  ma solo un codice. Regole che lasciano il segno, un tratto indelebile di perduta di libertà. Nessuna dignità sembra restare,  neanche il dolore ha una sua identità. Emblematico il padre dolente, mutilato di ogni gemito  per il figlio drammaticamente ucciso, un uomo ormai sconfitto costretto quasi a giustificare l’accaduto.

Dunque, il palco si popola di criminali mentre lo spettatore viene catturato da un ponte interminabile che va  da New York a Napoli. In questo spazio aperto ognuno ha il suo ruolo inafferrabile, come la coscienza che talvolta preme e fa riflettere.

E allora non resta che osare, come accade al personaggio impersonato dallo splendido Daniele Russo (nel ruolo che fu di Marlon Brando) che non rinuncia a lasciarsi alle spalle quel presente quasi demoniaco, al quale talvolta sembrava essersi anche lui abituato. Come tutti. L’assuefazione, del resto, è madre di molte disperazioni. D’effetto l’immagine finale del protagonista che entra lentamente nei cantieri, simbolo di una vita possibile, avulsa dal crimine. La sovrapposizione con il film di Kazan è totale, ma al tempo stesso riflette la personalità artistica dell’opera, ormai patrimonio del territorio partenopeo.

Una menzione per Ernesto Lama che caratterizza al meglio il camorrista con le sue nevrosi, con i suoi tratti di disumana eccentricità. Fanno da eco gli altri personaggi schiacciati da un’ impotenza atavica.

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