Alla ricerca delle leccornie perdute. Dalla Liguria allo Stato dell’Iowa
Si nasce cuoca, o si diventa? Non c’è dubbio che tutto nasce dagli insegnamenti della mamma legati alla curiosità di scoprire come nascono e si fanno principalmente i dolci.
Il primo contatto con lo zucchero lo scopre infatti il neonato quando questo velo bianco ricopre il “ciuccio” per portare al piccolo quel senso di tranquillità che spegne il suo pianto.
Tuttavia, fare dolci vuol dire mettere in pratica segreti, tramandati da secoli e che il più delle volte muoiono, se non vengono trascritti; anche se è risaputo che non bastano le descrizioni delle dosi necessarie per comporli, ma occorre una manualità particolare che si apprende con gli anni.
Così siamo andati alla riscoperta di quelle leccornie, ormai non più esistenti, e che rallegravano festicciole e compleanni negli anni ’60-’70 del Novecento.
Le sciuette
In auto con papà si percorreva la statale Aurelia, e prima di iniziare la salita del passo Centocroci, ci si fermava a Varese Ligure. Dopo un saluto alla chiesa S. Filippo Neri, si bussava alla porta del convento delle suore agostiniane, per chiedere i dolci, chiamati “sciuette” ovvero fiorellini, i biscotti a forma di S, gli amaretti, le castagnette, e l’ottimo sciroppo di rose.
Tutto proveniva dall’orto del monastero ove non mancavano alberi di frutta, un alveare, un vigneto, un pollaio e tantissimi fiori. Le uova servivano per fare ogni tipo di dolce, così com’era ottimo il miele, e tanti tipi di marmellate.
È probabile che il convento esistesse già agli inizi del ‘600, visto che da un documento, nell’archivio della diocesi di Chiavari del 1660, si sottolinea la richiesta di poter beneficiare della vendita dei prodotti fatti dalle monache entro le mura del monastero.
Non è possibile immaginare che cosa fossero quei dolci! Quelle mandorle pestate in un mortaio di legno, quel gocciolatoio ad acqua usato per ammorbidirle, quelle tinture naturali che coloravano i fiori, la frutta, i funghi, i pesciolini e persino le bomboniere con gli uccellini posti sui bordi, tutto fatto in marzapane. Erano tanto belli a vedersi che sembrava commettere un peccato metterli in bocca.
Queste prelibatezze divennero conosciute non solo nel circondario, ma a Genova, Parma e persino in America ove il 1 aprile del 1912 il giornale The Quad-City Time Davenport Iowa, pubblicò un articolo dal titolo “Convent of Biscuit Makers – Varese Ligure- Italy”.
Noi bambini attendevamo che la ruota “il curlo” all’interno del portone girasse, perché le suore di clausura non potevano essere viste, per ascoltare la voce che usciva dalla grata: “Sia lodato Gesù Cristo” ed ecco apparire quei vassoi pieni di leccornie presentati in modo perfetto, accompagnate da tovagliette di carta intagliate con pizzi, conservate ancor oggi da alcuni abitanti varesini.
Esiste ancora oggi, un vassoio di questi dolci conservati presso l’Albergo degli Amici, fin dall’anno che purtroppo il convento fu chiuso, era il 2012.
L’attività delle monache di clausura spaziava in tanti campi: facevano fiori di carta, custodivano paramenti sacri che ricamavano con particolare arte, gestivano una piccola farmacia con medicamenti tipici, preparavano le ostie per la S. Messa, offrivano prodotti dell’orto, prezzemolo, rosmarino, alloro, fagiolini e patate e poi producevano funghi secchi, che furono apprezzati anche da Gioachino Rossini nel 1867 e che ne richiese una certa quantità al suo domicilio di Parigi.
Questa storia è leggibile presso il Conservatorio della Società Economica di Chiavari stampata nel 1906.
“Ora et Labora” è stata la linfa da cui le sorelle hanno generato la loro vita per secoli. Oggi il convento è chiuso, le ultime due sorelle furono accolte a Cascia e, una di loro, suor Gabriella, continuava a mantenere gelosamente il segreto di quei deliziosi pasticcini, la cui unicità risiedeva nell’essere vuoti all’interno, quindi leggeri e delicati, ricordando di avere ricevuto un apprezzamento dalla regina Maria José e un riconoscimento ufficiale da un console americano.
Sono storie che raccontano il patrimonio culturale di un paese ove la spiritualità era connessa con la produzione di tante cose buone e che rimarranno per sempre legate alla cittadina e ai sui abitanti. Un tesoro lasciato in eredità come testimonianza del fare e dell’essere.
Splendido racconto.
Quando ero piccola ho atteso qualche volta davanti alla ruota per gustare i buonissimi dolcetti.