Quando l’uomo sapeva raccogliere ogni goccia della pioggia

Venezia sotto l’acqua. È un disastro, titolano i giornali che attraverso il web seguono in tempo reale l’evoluzione del fenomeno dell’acqua alta che tra il 12 e il 13 novembre 2019 è arrivata all’altezza record di 187 centimetri, provocato una vittima e poi incendi – a causa delle centraline elettriche raggiunte dell’acqua – barche affondate, gravi danni nel centro storico della città lagunare ma anche in altre zone del Veneto.

E se Venezia piange, Matera non ride. Un nubifragio abbattutosi su tutta la Basilicata, ha trasformato le vie del centro del capoluogo lucano in un grande fiume.

È novembre, il mese delle piogge. L’acqua alta a Venezia è fenomeno antico, causato dalla concomitanza tra l’alta marea e lo scirocco, il vento che soffia dal Sud-Est.  Poi c’è il riscaldamento globale che estremizza i fenomeni climatici. Ma avvisa Pietro Laureano, esperto Unesco degli ecosistemi in pericolo, nel suo articolo pubblicato su Avvenire.it e intervenendo alla trasmissione di Radio 3 Tutta la città, la situazione non sarebbe così “drastica” se l’uomo non avesse smesso di fare manutenzione, se non avesse esagerato con la cementificazione del suolo, se non avesse reso i terreni impermeabili.  Se non avesse abbandonato l’antico saper fare in stretta relazione con l’ambiente e i suoi fenomeni, in stretta relazione con l’acqua che da benefica si sta trasformando in distruzione, “nell’orrore della terra”. Venezia e Matera, nonostante la loro apparente differenza si basano sull’acqua, sono 2 aspetti “dello stesso sistema”, comune a tante città italiane.  La loro bellezza è il frutto della fatica del lavoro “dei nostri antenati”. Una bellezza che noi contemporanei “stiamo disperdendo” perché non capiamo che è stata realizzata in relazione al sistema ambientale, un approccio di costruzione che rendeva le città capaci di resistere anche a forti stress.

Nel Veneto, ad esempio, c’erano gli addetti agli argini: quando i fiumi erano in piena distruggevano gli argini e decidevano quali spazi allagare, sapevano convivere con le inondazioni. “Il fiume esce. Lo deve fare. Lo fa. Il fiume deve respirare, deve fare il suo corso” ricorda Laureano e un tempo l’uomo ne teneva conto, adeguando “la situazione agricola e urbanistica alla possibilità di una piena, di un’ inondazione e sapeva, nei momenti opportuni, indirizzare, canalizzare l’acqua”.

Le città del Sud erano state costruite “in modo gravitazionale” e l’acqua era sia protetta e utilizzata, sia incanalata e indirizzata verso giardini pensili, nei campi che erano in grado di assorbirla. A Matera l’acqua  convogliava in 2 fiumi che nel tempo sono stati cementificati.

Tutte pratiche e accorgimenti dimenticati: se un tempo “l’uomo sapeva raccogliere ogni goccia della pioggia” oggi le città “non sono più spugne, non sono in grado di assorbire, non sono più superfici drenati. Sono lastre di cemento”.  Ed per questo che Venezia non è minacciata solo dal mare, ma anche dal suo entroterra. “L’acqua le arriverà anche dalle spalle” prosegue Laureano che non vede il potere salvifico nelle grandi opere ma, piuttosto nel fare riferimento a qui saperi antichi, alla capacità di gestione, frutto dell’esperienza degli eventi climatici. Dunque va ripensato il governo delle acque, mettendo in opera piccoli ma continui accorgimenti: ripulitura dei canali e dei fossi, se serve la costruzione di piccoli argini intorno agli edifici, sollevamento dei terreni, tanto per fare degli esempi.

Pietro Laureano auspica che sia “ripensata l’ingegneria” che non deve “contrapporsi in modo drastico agli eventi ambientali”, ma che sappia realizzare “un lavoro naturalistico” di lungo periodo in grado di affrontare gli inesorabili ma imprevedibili “movimenti della natura”.

 

Fotografie dall’alto: 12 -13 novembre 2019 – Record acqua alta a Venezia, 187 centimetri; Matera durante il nubifragio

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