Rapporto Human Rights Watch 2018. Tutta la colpa del populismo

“L’ascesa del populismo autoritario sembra essere meno inevitabile di un anno fa. A quel tempo, il fenomeno dei politici di tutto il mondo che fingevano di parlare in nome del “popolo” sembrava inarrestabile”.  Con queste parole animate da una lieve nota di ottimismo, Kenneth Roth, direttore dell’Human Rights Wacth apre il World Report 2018 pubblicazione annuale dell’ong sullo stato dei diritti umani nel mondo.
Nonostante ciò il populismo e le manipolazioni dell’opinione pubblica continuano a essere alla base dei problemi che ledono i diritti umani.

La versione cartacea del rapporto porta in copertina una fotografia dei Rohingya in fuga (nella foto a lato). E alla comunità islamica, costretta in gran parte a fuggire dal proprio paese nativo, il Myanmar (Birmania), verso il Bangladesh, il Rapporto dedica un intero capitolo.
A dimostrazione dell’incipit della relazione, Kenneth Roth indica il tempestivo mancato contrasto  al populismo come causa delle violenze perpetrate alla comunità musulmana Rohingya, costringendola all’esodo per salvarsi la vita.  “La corrosiva retorica nazionalista progressivamente disseminata dai buddisti radicali, dalle massime autorità militari e da alcuni membri del governo hanno contribuito alla campagna di pulizia etnica contro i musulmani Rohingya”,  scrive Kenneth che denuncia almeno 340 villaggi incendiati e stupri diffusi  perpetrati dall’esercito birmano. Violenze che hano indotto oltre 640mila Rohingya in fuga: il più grande e “rapido spostamento forzato di persone dal genocidio in Ruanda”.  Tutti hanno le colpe dei crimini contro la comunità, secondo il Rapporto: i paesi occidentali “riluttanti ad agire” contro il Myanmar, in parte “per la concorrenza geopolitica con la Cina che ha nel Myanmar forti interessi economici e strategici e, in parte per “l’ingiusta deferenza verso il leader de facto San Suu kyi”. Premio nobel per la pace, San Suu Kyi non ha un “reale controllo sulle forze militari” ma, rileva Kenneth “non ha mostrato alcuna volontà di affrontare il costo politico della difesa di una minoranza segregata”. Ci sono poche “speranze” secondo il Rapporto Mondiale “che i Rohingya possano tornare immediatamente (in Myanmar ndr) in modo sicuro e volontario o che i responsabili delle atrocità che hanno costretto queste persone a fuggire siano consegnati alla giustizia”.

Il ruolo dei piccoli Paesi europei a favore dello Yemen…

Nell’anno 2017 gli Stati piccoli hanno giocato un ruolo importante nella difesa dei diritti umani. Ne è un esempio la guerra civile che infuria nello Yemen dal 2015. Il Rapporto Mondiale 2018 ricorda la devastazione sul popolo civile causato dagli attacchi aerei della colazione guidata dall’Arabia Saudita: bombardamenti su ospedali, case, mercati; il blocco degli aiuti umanitari; 7 milioni “hanno sperimentato la carestia” mentre si sono verificati “1 milione di casi sospetti di colera”.
Stati Uniti, Regno Unito e Francia scrive Kenneth sono “tra i principali paesi che vendono armi all’Arabia Saudita” e nessuno dei 3 è stato “disposto ad adottare una posizione pubblica” contro l’Arabia Saudita e ha promuovere l’avvio di un’indagine Onu. A farlo invece sono stati i Paesi Bassi, seguiti poi dal Canada, Belgio, Irlanda e Lussemburgo.  Per i “piccoli Stati” come li definisce il Report “non è stata impresa facile” ma hanno colpito l’obiettivo e l’Arabia Saudita, dopo aver minacciato di recidere i rapporti diplomatici con qualsiasi Paese avesse sostenuto l’indagine, è stata costretta ad accettarla. Oggi, scrive Kenneth, l’unica speranza per lo Yemen risiede “nel gruppo di investigatori che monitorano le azioni dei combattenti e li costringerà” a comportamenti migliori.

… e al tentativo di portare la Siria alla Corte dell’Aja

È terminata la guerra in Siria? Si spara ancora vicino a Damasco, e non solo. Sacche del sedicente stato islamico resistono sulla sponda est dell’Eufrate agli attacchi dei curdi delle Forze democratiche sostenute dagli Usa.

Dal 2011 la Siria è colpita dalla guerra civile nella quale si sono inserite le milizie curde dell’YPG e i combattenti dell’Isis.  Una componente quest’ultima che, per i suoi attentati terroristici compiuti nel mondo, ha portato il conflitto civile a livello internazionale, in nome della lotta contro il terrorismo.  Gli Usa, alla guida di una coalizione, si sono affiancati ai curdi dell’YPG, la Turchia è subentrata contro i curdi, la Russia si è schierata in difesa del presidente Bashār al-Assad (a sinistra nella foto con Vladimir Putin, presidente della Russia).  La primavera araba che ha portato i siriani nel 2011 a manifestazioni di piazza per chiedere maggiore libertà e uguaglianza dei diritti, per la reazione repressiva del presidente siriano, Bashār al-Asad, è degenerata in un conflitto di difficile soluzione e, soprattutto feroce.  Migliaia e migliaia di vittime (tanti i bambini) richiedono, come riporta Kenneth, l’intervento della Corte Penale Internazionale. Nell’aprile del 2017, si legge nel Report, è diventato evidente “l’uso persistente da parte del governo siriano, di agenti neurotossici proibiti come il sarin” nonostante la Siria avesse formalmente rinunciato alle armi chimiche dopo l’attacco compiuto nella Guta orientale del 2013.

Riguardo all’attacco siriano del 2017 la Russia dapprima ha fornito “una spiegazione falsa” affermando che la Siria aveva usato “una bomba convenzionale” caduta in un magazzino dove le forze ribelli immagazzinavano gas sarin. Poi, in sede Onu, con “i ripetuti veti e minacce di veto la Russia ha ostacolato “l’unica via diretta” di portare la Siria alla Corte Penale dell’Aja”.  Pur crescendo il numero di chi sostiene che nei casi di “atrocità di massa” nessun Paese dovrebbe porre il veto, la Russia, la Cina e gli Usa si sono mostrati contrari a questa iniziativa.  Che fare? Ancora una volta i piccoli Stati sono venuti in aiuto. Per uscire dall’impasse, racconta il Report, il Liechtenstein ha proposto “di eludere il sistema di veto del Consiglio di Sicurezza, adottando le misure nel quadro dell’Assemblea Generale dell’Onu, dove nessun Stato ha potere di veto”. Un’idea accettata da “un’ampia coalizione di governi” che ha portato a 105 voti a favore e solo a 15 contrari: un risultato che permette di raccogliere prove per istituire processi là dove ci saranno “giurisdizioni disponibili”.  Apre, inoltre, alla possibilità che l’Assemblea Generale istituisca un tribunale speciale per la Siria, qualora la Russia dovesse continuare a “bloccare la possibilità di giustizia nella Corte Penale Internazionale”.

La Russia, la Cina e il vuoto lasciato dai Paesi Occidentali, UE compresa, piccoli Paesi a parte

Kenneth, dicevamo, scrive che fino a un anno fa l’avanzare del populismo autoritario sembrava invitabile con i leader “di tutto il mondo” che pretendevano parlare “in nome del popolo”, facendo proseliti quando “demonizzavano” le minoranze, quando attaccavano i principi dei diritti umani fomentando la sfiducia verso le istituzioni democratiche.

Ma il presente vede “la reazione popolare guidata da politici che hanno il coraggio di difendere i diritti umani” e rendono “incerte le aspirazioni dei populisti”.  Quando “la reazione è decisa” rileva Kenneth “i progressi dei populisti sono limitati”. Ma se non c’è la reazione popolare con una leadership  certa ” s’impone il messaggio dei populisti intriso di odio ed esclusione”.  Un fenomeno che ha portato, secondo il Rapporto – piccoli Paesi a parte – “molte delle potenze occidentali in una posizione d’isolamento, generando un mondo sempre più frammentato”: soprattutto per gli Usa “governati da un presidente (Donald Trump ndr) vicino a leader autoritari e il Regno Unito assorbito dalla Brexit”.  Assenti, quindi, gli Usa e Uk, 2 “storici – sebbene imperfetti – difensori dei diritti umani”.  E la Germania, la Francia con i loro partner UE, sotto la pressione di forze politiche razziste e anti-rifugiati al loro interno, “non sono stati sempre disposti a prendersi carico della situazione”. Così come l’Australia, il Brasile, il Giappone e il Sudafrica “raramente hanno sollevato la voce in difesa dei diritti umani”. Uno status quo che ha provocato un “vuoto” che la Russia e la Cina cercano di sfruttare a loro vantaggio. Dando la priorità a “zittire le voci di protesta che si levano al loro interno per il rallentamento dell’economia e la corruzione generalizzata, i presidenti Xi Jinping (Cina ndr, a sinistra nella foto) e Vladimir Putin (Russia ndr, a destra nella foto) hanno spinto energicamente un’agenda anti-diritti nelle sedi internazionale, stringendo solide alleanze con i governi repressivi. Il modo in cui hanno eluso gli scrutini pubblici gli hanno permesso di conquistarsi l’ammirazione dei populisti e autocrati occidentali in tutto il mondo.

L’Unione Europea, minacciata dal gruppo Visegrad

L’Europa Centrale e Orientale, afferma il Rapporto, è diventata terreno fertile per i populisti e “alcuni leader approfittano dei timori suscitati dalle migrazioni nel resto dell’Europa, per minare i controlli istituzionale sulla sorveglianza del proprio potere” scrive Kenneth Roth.

In Polonia, in un “clima di proteste e forti critiche internazionali provenienti anche dalle istituzioni UE, il “presidente Andrzej Duda (foto a lato) ha finito col porre  il veto al tentativo del governo polacco di minare l’indipendenza giudiziaria e lo stato di diritto”, che lui stesso, in prima istanza, aveva approvato.    Kenneth Roth si riferisce al veto che Duta ha posto nel luglio 2017 al Sejm (la camera bassa del parlamento polacco), formata da una maggioranza di deputati del partito di Diritto e Giustizia (il partito del presidente Duda) all’ approvazione di 3 leggi, che attribuivano al ministro della Giustizia e al Parlamento il potere di nomina dei membri del Tribunale Costituzionale e del Consiglio Nazionale della Magistratura, oltre alla selezione dei presidenti dei tribunali ordinari. Duda, in nome della Costituzione polacca, ha posto il veto su 2 dei 3 provvedimenti, rispettivamente quello riguardante il Tribunale della Costituzione e sul Consiglio Nazionale della Magistratura.  Non avendo però fermato la 3° legge la Commissione Europea ha aperto una procedura d’infrazione contro la Polonia.

A beneficio del lettore ricordiamo che lo stesso Duda nel 2015 e 2016 (fresco di nomina) ha firmato anche la legge sulla riforma del tribunale costituzionale e la legge che prevede che i dirigenti della radio e della televisione pubblica siano nominati e licenziati dal ministero del Tesoro, entrambi condannate dal Consiglio d’Europa. Sempre nel 2015 Duda si è opposto al piano europeo di ricollocamento dei rifugiati: non da solo insieme al cosiddetto gruppo Visegrad formato dalla Repubblica ceca, Slovacchia, Ungheria e, appunto, Polonia.

L’Ungheria, dove soltanto le resistenze dell’UE sono riuscite a frenare la “democrazia antiliberale del suo primo ministro Victor Orbán di chiudere la Central European University (Università Centroeuropea) di Budapest, un “bastione del libero pensiero” come la definisce Kenneth Roth.

Il 2018 si preannuncia difficile per l’UE, sempre a causa dell’Europa dell’est.

Mentre scriviamo il partito di maggioranza polacco, Diritti e Giustizia – il cui leader è Jaroslaw Kaczynski – entra pesantemente nei diritti civili dei polacchi. In parlamento, infatti, si sta facendo strada il DDL Fermiamo l’aborto il quale impedirebbe l’aborto terapeutico, ossia l’interruzione di gravidanza che si pratica quando le analisi prenatali presentano malformazioni del feto. Nel gennaio 2018 le donne sono nuovamente scese in piazza per cercare di fermare il DDL.

Nella Repubblica Ceca il 27 gennaio 2018 le elezioni politiche hanno visto confermare la presidenza del filorusso Milos Zeman (foto a lato), sconfiggendo per soli 4 punti percentuali il filo europeista Jiri Drahos: un’elezione quest’ultima che avrebbe potuto invertire la tendenza antidemocratica dell’Europa orientale.

Così il blocco Visegrad fortemente marcato dalle matrici anti-europea, anti-migranti e anti-liberale rimane intatto e polarizza le idee nazionaliste di destra di altri Paesi come ad esempio l’Austria: un blocco, come sottolinea lo stesso Rapporto, che rappresenta una minaccia per la stessa Unione Europea che lo tiene sotto attenta osservazione mentre ha avviato, come c’informa Roth, il dibattito se è giusto elargire i fondi europei ai quei Paesi membri che non rispettano i suoi valori fondamentali. In particolare il dibattito all’interno dell’UE verte verso la Polonia e l’Ungheria che sono stati i “principali beneficiari dei fondi UE.

Le Filippine

Ed è ancora un esempio di populismo particolarmente “spudorato e letale”, l’attacco ai diritti umani compiuti da Rodrigo Duterte, presidente delle Filippine.  Permettendo alla polizia di uccidere le persone anche solo sospettate di avere legami con la droga, Duterte ha “innescato un’ondata di esecuzioni sommarie” che nelle Filippine ha mietuto 12mila morti. La maggior parte delle vittime secondo il Rapporto erano “giovani dei quartieri emarginati delle grandi città “che non hanno suscitato la compassione in molti filippini”.
Anche la grave offesa ai diritti umani, compiuta nelle Filippine, non ha destato l’attenzione dei grandi Paesi, per via della “disputa territoriale in corso nel Mar della Cina Meridionale, tra la Cina stessa, gli Usa e le Filippine.  Le pressioni per contenere il massacro di Duterte sono partite da un gruppo di Stati guidati dall’Islanda. Pressioni che hanno colto nel segno: il presidente delle Filippine dopo aver tentato di “squalificarle” tacciandole di “sentimentalismo” ha ceduto, almeno temporaneamente, “trasferendo l’autorità antinarcotici dalla polizia a un’agenzia di controllo della droga molto più rispettosa della legge e il numero delle esecuzioni si è ridotto drasticamente”.

 

(segue)

 

Foto di copertina: murale di Kenny Random 

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