Gino Coppedé. Il Bernini fiabesco dei palazzi
Il mio primo “incontro” con Roma è avvenuto in coincidenza di una partita internazionale di calcio, Italia- Galles 4 a 1 del 4.11.1969, allo stadio Olimpico. Era un premio promessoci da mio padre, quello di assistere ad una gara della Nazionale.
Fummo così conquistati dalle prodezze dei calciatori Mazzola e Riva in primis, ma anche dalla bellezza e dalla maestosità della città, dalla sue strade ampie, dal molto verde che interrompeva i quartieri con quelle macchie arboree che assomigliavano molto al nostro “pesto”.
E così quella Roma rimase impressa nel nostro ricordo fino a quando la vita ci propose un secondo incontro. Trenta giorni di “sosta” dettata solo da tanto dolore, convivenza obbligata perché passata ora dopo ora quasi esclusivamente chiusi in una clinica ad assistere mio fratello con il quale avevo gioito pochi anni prima proprio nel primo incontro con la città.
Il quartiere Parioli si mostrava in tutta la sua bellezza, ma io percorrevo, 2 o 4 volte al giorno,, le sue strade che da via Bertoloni, via Paisiello, lungo viale Regina Margherita, piazza Ungheria mi conducevano alla chiesa di S. Bellarmino, con la linea del tram che la costeggiava, fino a corso Trieste ed al quartiere Coppedé.
Lì rallentavo, ogni palazzo aveva qualcosa di fiabesco, la realtà mi suggeriva di non credere alle favole, ma quelle case, palazzine, torrette erano un flashback della mia fanciullezza. Avrei voluto entrarvi e conoscere quei fortunati abitanti che immaginavo, pur nella mia scarsa gioiosità di quel momento, essere forse fate, principi che occhieggiavano da quelle eleganti finestre, ornate di capitelli, e che mi invitavano ad entrare.
Avevo però sempre fretta, il mio amato malato, nel suo letto con materasso ad acqua, con flebo e trasfusioni che gli tenevano compagnia 24 ore su 24, reclamava la mia presenza. E nelle lunghe notti bianche, oltre alla compagnia del libro Com’era verde la mia valle il pensiero sovente tornava a quei manufatti che spesso si sostituivano alle righe allineate del libro.
L’unica cosa impossibile da fermare sono gli anni, uno segue sempre l’altro e nello spegnersi porta via con sé le cose tue, non solo gli affetti, ma anche la voglia di capire che quel periodo, così breve, ti stava regalando la possibilità di conoscere quell’architettura del primo Novecento così innovativa ed ancor oggi unica.
E’ passato quasi mezzo secolo, ma quel che non si distrugge può ancora essere un’immagine che si riflette, e così il nome Coppedé ti torna nuovamente familiare, e scopri che a Genova questo architetto aveva trovato il suo mecenate, Evan Mckenzie.
Mckenzie, fiduciario dei Lloyds di Londra, lo aveva “lanciato” proponendogli di progettare i suoi primi capolavori. Gli commissionò per sé un castello ove andò ad abitare che unitamente al castello Türke rappresentano ancor oggi opere definite di stile floreale, proprio perché uniscono lo stile borghese con quella vena di ottimismo e fanno trasparire uno stile che va dal moresco all’assiro babilonese, al medievale ed all’entrante neoclassico.
Proveniente da una famiglia fiorentina di artisti, riuscì ad esprimere le sue migliori idee proprio a Genova ove realizzò l’Esposizione Universale del 1914 e restò in città realizzando altre opere importanti.
Gino Coppedè fu senz’altro un sognatore, fu definito il Bernini dei palazzi grazie alle linee eleganti e alle decorazioni che architettonicamente assemblano stili gotici romanici e greci in una visione cromatica che sorprende sempre.
Oggi Roma è diventata la mia città, ed anche se vivo nella zona Sud mi capita di percorrere ancora quelle vie, e chissà perché ritengo fortunate le persone che abitano in quel quartiere. Riusciremo mai a vedere tutto il bello che c’è intorno a noi? La risposta è facile. Mai! Perché non sappiamo più vedere, leggere, scoprire, occupati come siamo a rincorrere le vita fatta solo di problemi.
Una bimba di due anni in spiaggia mi ha detto: “Ho visto all’acquario un delfino nell’acqua che giocava con la palla” Era felice nel dirmelo, ed è giusto così. Pensate invece quale contentezza avrebbe provato se la mamma gli avesse fatto vedere quei castelli fiabeschi costruiti da Coppedé e le avesse raccontato che lì vivevano Biancaneve ed i 7 nani oppure Cenerentola ed il suo principe.
Scusatemi, se sono andata fuori tema, quelle favole piacciono solo a noi grandi e perché è il solo modo per restare fanciulli ancora per un po’. Ecco perché riesco ancora a sorprendermi se “casco” nel quartiere Coppedé sia mi trovi a Genova o a Roma.