Gli inizi dei libri, oggetti di culto in un mondo veloce

Gli inizi dei libri – i cosiddetti “incipit” – sono sempre più un oggetto di culto.

Mentre alcuni anni fa a raccoglierli e commentarli erano solo alcuni sparuti libri (nel 1993 ne curò uno addirittura Umberto Eco), con Internet sono diventati una vera e propria moda. I siti dedicati sono migliaia. Alcuni si limitano a elencarli, altri li hanno divisi in categorie. Poi si trovano pure giochi per indovinarli e guide più o meno raffazzonate su come scriverne di bellissimi. Ma, perché? 

Prima di tutto, perché Internet par proprio il luogo ideale per passioni come queste: gli inizi sono brevi, pubblicarli e leggerli costa poca fatica, copiarli non è reato e non implica il pagamento dei diritti d’autore, i tempi di lettura sono perfetti per la veloce, svogliata pratica dell’internauta più o meno esperto. Infine, gli inizi dei libri offrono a chi ne scrive o parla la possibilità di sembrare colti senza grande fatica e giocare con un oggetto serio – o almeno percepito così – come i libri.

Le prime frasi dei romanzi sono un oggetto letterario, in effetti, interessante. Si dice per esempio che Italo Calvino, prima di morire, progettasse di dedicare la settima delle sue Lezioni americane proprio agli inizi; purtroppo non sappiamo cosa avrebbe scritto. 

Nella lista dei 200 romanzi degni di nota compilata dal Times solo otto – ha calcolato Electric Literature – iniziano con una descrizione e nessuno di questi è stato scritto da un debuttante, ma tutti da autori affermati che l’attenzione l’hanno già conquistata. In realtà questa regola non vale sempre e per tutti, per fortuna.

I libri continuano a iniziare con banali notazioni meteorologiche («Era la stagione delle piogge, a Bangkok», Yukio Mishima, Il tempio dell’alba), con frasi assurde («Quando un giorno che secondo voi dovrebbe essere mercoledì, vi sembra fin dall’inizio domenica, potete star certi che qualcosa non va», John Wyndham, Il giorno dei Trifidi) o violente («Era una gioia appiccare il fuoco», Ray Bradbury, Fahrenheit 451), descrivendo una famiglia normale («Il signore e la signora Dursley, di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di poter affermare che erano perfettamente normali, e grazie tante. Erano le ultime persone al mondo da cui aspettarsi che avessero a che fare con cose strane o misteriose, perché sciocchezze del genere proprio non le approvavano», J. K. Rowling, Harry Potter e la pietra filosofale) o l’aspetto fisico di un personaggio («L’uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo», Mario Vargas Llosa, La guerra della fine del mondo). È vero, però, che la frequenza di attacchi secchi è aumentata e tende ad aumentare, anche se non si è imposta come regola unica. 

In un articolo pubblicato nel 2013 sull’Atlantic Monthly, Stephen King racconta: «Quando sto per iniziare un libro, lo compongo a letto prima di addormentarmi. Sto lì sdraiato nel buio e penso. Provo a scrivere un paragrafo. Un paragrafo di apertura. E in un periodo di mesi o anche di anni, muovo le parole e le rimuovo finché non sono felice di quello che ho. Se riesco ad avere il primo paragrafo giusto, so che potrò scrivere il libro». 

La caratteristica fondamentale di un buon inizio, oggi, è che contenga già una promessa di ciò che verrà. L’inizio, insomma, dovrebbe avere già in sé l’annuncio della fine. In questo senso l’attacco è un concentrato della storia (il che rimanda molto anche alla pratica giornalistica), una frase in cui presente e passato collassano l’uno sull’altro, in cui il tempo presente – quello del racconto – si dispiega a partire da quanto è già avvenuto in passato, ma che nel libro accadrà nel futuro.

È la stessa tecnica utilizzata da Gabriel García Márquez: «Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio» (Cent’anni di solitudine); «Era inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati» (L’amore ai tempi del colera); «Il giorno in cui l’avrebbero ucciso, Santiago Nazar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo» (Cronaca di una morte annunciata).

Come si vede nessuna tecnica o schema può uniformare la scrittura di un incipit perché la chiave ed efficacia e bellezza di un inizio risiedono altrove. 

Se gli inizi dei grandi romanzi sono così considerati, letti e ricordati è anche per un’altra ragione: sono il primo scalino delle storie scritte e aiutano ad avere meno vertigini di fronte alla pagina bianca. La cosa più importante da tenere a mente, però, quando si vuol scrivere una storia, è che in fondo l’inizio è l’ultima cosa. È il caso di uno degli attacchi più originali della storia della letteratura, che ne è al contempo la fine: si tratta del racconto più breve del mondo. È intitolato El dinosaurio, lo pubblicò (ricorda Giacomo Papi su “Il Post”) nel 1959 Augusto Monterroso, un geniale scrittore honduregno-guatemalteco.

Dice, semplicemente:

«Quando si svegliò il dinosauro era ancora lì».

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