Forlanini. Ricordi dell’isola che non c’è

Forlanini. Ricordi di un'isola che non c'è. Un ospedale che ha rappresentato la storia dei romaniInaugurato nel 1934, il Forlanini è stato una punta di diamante del nostro sistema sanitario. Una struttura all’avanguardia per l’epoca con oltre 200 mila metri quadrati di parco, alberi secolari, un teatro, una biblioteca, un museo, due chiese, camere con immense balconate; tutto studiato per assicurare la migliore degenza ai malati di tubercolosi in tempi in cui gli antibiotici non esistevano e ancora non facevano parte dei nostri abusi quotidiani.
Ebbene, questo nosocomio nato e concepito per accogliere le sofferenze i è divenuto esso stesso un malato terminale, inabile, come ci mostra la suggestiva narrazione fotografica Effe.

In questa atmosfera si rinviene il paradosso: in passato una terra dove stazionavano malati, oggi  approdo del folto popolo dei senza, ognuno con le loro specificità. Senza tetto, senza patria, senza diritti, senza dignità. Naturalmente fra gli inquilini abusivi non sono mancati i senza dignità, i senza etica: spacciatori, ladri, pusher insomma delinquenti pronti a rianimare i padiglioni, i corridoi, perfino la camera mortuaria.
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Ma lo storico ospedale sito nel quartiere Monteverde è  per molti cittadini romani uno scrigno di memoria, un crocevia di storie, vissute con tutte le complicanze insite a situazioni di malattia. Dunque, questa struttura preserva ancora il ricordo e apre ad una riflessione che seppur intimamente condotta  vuole essere e rimanere discreta, nonché critica nei confronti di decisioni inspiegabili.

Di seguito abbiamo raccolto due storie emblematiche che abbiamo voluto lasciare  in prima persona al fine di di cancellare le ombre dell’attualità e restituire all’ospedale la dignità perduta.

Mia madre

Il Forlanini, un gigante della salute che nel giugno del 2015 viene chiuso definitivamente a seguito di una lenta dismissione iniziata nel 2008, l’anno del ricovero di mia madre. Uno dei primi, presto mi sarei abituata ad innumerevoli immissioni e dimissioni.

Tutte con lo stesso iter: chiamata al 118, dettagliata spiegazione telefonica dei sintomi, incontro con l’équipe dell’ambulanza ( il medico negli anni sarebbe stato sempre meno presente); infine lo stazionamento al pronto soccorso, dopo l’attribuzione del colore, codice della gravità e, ahimè, dei tempi d’attesa.

Subito, l’ansia, la paura, la rabbia a fare da corollario ad una serrata ricerca di un posto letto in qualche altro ospedale della città. Una agonia per tutti. Che strano, talvolta il bisogno di essere accolti tocca anche noi occidentali, portatori sani di benessere.

Mia madre è stata affetta da una grave malattia polmonare che l’ha costretta alla bombola d’ossigeno per ben sette anni. Le mancava l’aria, ma non la voglia di vivere, di continuare a guardare il mondo con l’ironia e il realismo che fino all’ultimo l’hanno accompagnata. Nonostante avesse ricevuto l’angusto monito di una forzata convivenza con la bombola,  fin da subito si era dimostrata ferma nel rifiutare una tale dipendenza. Impossibile vivere senza ossigeno, inutile però ai suoi occhi sopravvivere attaccati ad una maschera, lei che di maschere non ne aveva.

Ebbene, fu proprio al Forlanini che imparò ad accettare quella condizione come un disagio fra i tanti a cui la vita, del resto, l’aveva abituata. Il personale medico e paramedico riuscirono a rendere quella necessità irrinunciabile. Alternavano la pacatezza alla fermezza, essenziale binomio per chi deve curare. E negli anni mia madre ha sempre rammentato la convalescenza al Forlanini con la malinconia laica di chi ha imparato a schivare la morte.

Più che un ospedale, o meglio,  una comunità che accoglieva, un punto di riferimento per il quartiere e non solo. Nel ricordare quei momenti, scolpiti dentro di me, in modo naturale la mia mente va ai padiglioni del Forlanini, filmati magistralmente da Nanni Moretti nel film autobiografico Mia Madre.

Una narrazione profonda ed autentica di una persona anziana e lo spaesamento  dei figli, forzati ad un confronto drammatico con la propria esistenza e con quella della famiglia di origine.  L’antico nosocomio con la sua imponente struttura fa da sfondo perfetto al dolore dei due protagonisti che, increduli, provano a dare un senso a quell’imminente morte. Non si è mai pronti a perdere la propria madre.

Un malato psichiatrico nel giardino dell’amore

Entrai, la porta si chiuse. Un rumore assordante. L’onta di sempre non mi infastidì, anzi quasi provai una sensazione di pace. Le lamiere, il  rimbombo, un già vissuto nella sua inesorabile autenticità. Da lì a poco sarei stato ricondotto verso nuovi compagni, fedeli tutti ad un medesimo destino.

Le porte di ogni reparto psichiatrico risuonano dello stesso frastuono, come se la follia trovasse talora conforto nell’identico; nulla di più estraneo le può essere posto dinnanzi. Era il lontano 2002, ancora non si parlava dell’eventualità di chiudere il Forlanini, o quanto meno a noi cittadini, monteverdini, non ci erano giunti afflati di questo  sbarramento.

Era estate. Il caldo forse aveva incentivato la mia follia, amplificandone i sintomi. Oppure il sole di agosto mi aveva preservato dal compiere azioni riprovevoli, lecite, però, nel delirio. Il mio ricordo di quella degenza, una delle tante, è strettamente connesso al meraviglioso giardino, patrimonio del Forlanni, ricchezza della città. Un parco come tanti ce ne sono a Roma, tuttavia per me un eden dove consumare il mio ricovero.

Credo che i padigloni psichiatrici presentino le stesse fattezze convalidanti lo stato di alterazione mentale: muri scrostati, comodini vuoti, parole sconnesse e le sbarre a celare gli sguardi. Non luoghi senza particolarità, perché la follia spoglia della propria singolarità.

Ebbene quello spazio angusto non mi sembrava adatto ad accogliere i miei familiari che venivano a farmi visita ogni giorno. Varcavano quella soglia senz’anima e mi venivano incontro per amore o semplicemente per liberarsi dal senso di colpa per quella reclusione forzata.

Appena scattava l’ora attendevo gli infermieri che, con la gentilezza di chi non declina il proprio dovere per il semplice dovuto, mi annunciavano l’arrivo dei miei figli e della mia compagna. Subito provavo a schizzare via per trascinarli lungo i viali alberati dell’ospedale, sebbene i miei passi striscianti tenevano fede al ritmo imposto dal controllo chimico.

Appena fuori, però, l’aria e il refrigerio sembravano restituirmi la libertà con il mio ruolo di padre e compagno. Gli alberi secolari, l’incanto paesaggistico mi hanno permesso di esprimere l’amore per i miei cari, un’agonia per chi è vittima di travagli mentali.

Conclusioni

Con la sua  posizione ottimale, esposizione a sud est. grazie alla presenza di piante rare ed esotiche ha preservato per molti anni aria e luminosità, rendendo gli ambienti più confortevoli possibile, né troppo caldi  d’estate e né troppo freddi d’inverno. Una struttura atta a garantire dignità ad ogni tipologia di  degenza. Ed ogni ricovero resta sempre e comunque un vissuto.

Alla luce di queste e altre testimonianze è lecito chiedersi se davvero era impossibile mantenere vivo il Forlanini. Da tempo si sente parlare di una sua riconversione. Laddove, però, manca una seria manutenzione la situazione risulta esplosiva e ogni riciclo strutturale diviene complicato se non addirittura improbabile.

Così un pezzo di storia e di storie se ne va fra i resti dei vetri, i macchinari abbandonati, i medicinali dimenticati mentre le recenti azioni di sgombro eliminano sì l’ abusivismo, la droga, i rifiuti, la prostituzione, ma non l’oltraggio subito dai romani.

Il momentaneo risanamento fa parte della normale routine, dopo il ritrovamento del corpo di una giovane ragazza, spenta per overdose. Forse resta la morte l’unica ancella della sanità. Un ennesima antinomia che sfiora la follia dei tempi.

Ma dietro la follia, con un po’ di buona volontà ri-troviamo la saggezza millenaria e avanguardista di chi non si arrende al degrado e all’indifferenza e, anche solo con la memoria, il ricordo, lancia un segnale di speranza per il decoro urbano e civile. In nome di quei pazienti, medici e familiari che ne hanno popolato le corsie e hanno goduto di un giardino incantato

 

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